Postfazione
Zero.
1924- circa: 12 febbraio?…
1925- il 12 novembre, alle ore 8,30 (?), sono nato io in una abitazione al n.24 di Stradone S. Fermo in Verona. Così mi è stato detto: oltre al resto, i genitori (le mamme in particolare) sono fatti anche per dire queste cose…
1927- mi ritrovo una sera a passeggiare fra i miei genitori mentre esplodono fuochi artificiali, in località “Cancellata” (un sobborgo di Verona) ove abitavamo in una villetta d’affitto…
1928- il solletico dei baffi di mio padre mi svegliò di prima mattina nella mia camera: “ciao Federico. E’ nato Gianni, tuo fratello. Vieni, andiamo a vederlo”. Era il 2 giugno. Esitante misi la testa fra la porta della camera matrimoniale, una leggera spinta affettiva mi introdusse e mi guidò, era mio padre, dall’altra parte del lettone ove mia madre ci accolse sorridente dicendomi: “guarda com’è lungo”, è il tuo fratellino”, dopo aver tratto dalle lenzuola un bianco involucro ed averlo riposto nella stessa posizione al suo fianco. Mio padre mi portò a livello: detti un bacio a mia madre ed a ciò che chiamavano “tuo fratello”. Ricordo, di quel giorno, gli sbaciucchiamenti cui a ripetizione venivo sottoposto da parte di donne che, non avevo mai visto, dicevano di essere mie zie. Oltre alle facce nuove, sulla tavola in cucina un vassoio una bottiglia dei bicchieri. Andai fuori a giocare. “Fuori” era un marciapiede di un paio di metri che, girando attorno alla casa, confinava su due lati con la strada e con gli altri due con orti-giardino di case adiacenti…
1929- un certo giorno, mio padre mi porta a concludere l’andata di una lunga passeggiata davanti ad una casa in costruzione dicendomi: “ecco, questa sarà la nostra nuova casa”. Verso la fine dell’anno ci trasferimmo nella nostra nuova casa. Un grande giardino tutt’intorno, un orto vastissimo: tanto spazio per correre. Il luogo: via Gorizia n.4, Borgo Roma (Verona). A mano, ora mio padre ora di mia madre, visita alla casa: dalla cantina, al piano rialzato, al primo piano, al granaio.
Mia madre decide di mandarmi all’asilo infantile presso un vicino istituto di suore. “Non voglio mettere il pagliaccetto per andare all’asilo”: prime suonate di mia madre. “Nessuno all’asilo porta il pagliaccetto” insisto con mio padre: basta pagliaccetto, basta suonate. Iniziano i traumi psichici che ricordo…
1930- ottobre: primo giorno di scuola. L’edificio scolastico pubblico si trova più distante dalla mia casa ma il tragitto è molto semplice. Girato l’angolo a sinistra della mia via mi basta proseguire, lungo le rotaie del tram, passando davanti all’asilo infantile che continuavo a frequentare nel pomeriggio, per trovarmi, dopo circa 300 metri, all’angolo posteriore della scuola. Era cominciata “la vita da cani”, ero felicissimo. In casa continuavo a portare il pagliaccetto: mia madre non ammetteva repliche. Durante quell’estate faccio conoscenza con il “barbiere di tuo padre”: Marcello: ha l’incarico di raparci a zero. Quella prima volta il “colpo macchinetta” riuscì; negli anni successivi gli fu impossibile briscolarmi, con o senza sotterfugi. Dovette sempre intervenire mio padre, d’autorità. Le rapature cessarono quando anche Gianni fu in grado di non farsi acciuffare, solidale con me. In due anche la maggioranza era assoluta. Gianni non riusciva a pronunciare il mio nome correttamente: “chico”: da allora fu il mio vero nome, dappertutto. Mio padre mi chiamò sempre “coco”; in qualche compagnia “checo”: subito provvedevo alla rettifica, “chiamatemi chico, reagisco meglio”. Anche adesso reagisco in ritardo al mio nome anagrafico, non mi appartiene; nonostante mia madre allora e mia moglie oggi. Dal punto di vista fonetico e per legittima tradizione a Federico preferisco Chiecchi…
1931- asilo infantile: esercizi spirituali in preparazione alla prima comunione; dio e diavolo. A casa, di nascosto, ogni tanto tiro calci e pugni all’aria. Cattivi pensieri: il diavolo è dappertutto (come dio) e non si sa mai. Mi difendo come posso: non so che l’alienazione (mia) è iniziata. Un giorno suor Redenta (preparatrice alla prima comunione), dopo la consueta lezione di mimica varia a base di genuflessioni diverse, di confessioni vere e finte, di fac-simili di particole da sciogliere in bocca senza masticare prima di deglutire, alla fine della lezione fa cenno a me di rimanere. Mi bruciava la terra sotto i piedi. Perché non avevo detto che giocavo con le bambine? Peccato. Più precisamente: facevo porcherie con le bambine? Peccato mortale. Confessati! Confessati!: non mi confessai. La “grazia di dio”: ricordati! Mentii: da qualche parte bisogna pur cominciare, la realtà di certe remore educative ben difficilmente ammette eccezioni naturali di un certo tipo.
Passai la notte precedente il “sacro evento” in uno stato penoso di dormiveglia continuando a riempire di sputi il fazzoletto fradicio. D’improvviso, appena a letto mi era sorto un dubbio colossale riguardo al bere. Sapevo che, oltre a mangiare, era assolutamente proibito bere un certo tempo prima di “ricevere il Signore”. La saliva era acqua (così avevo deciso) perciò se l’avessi deglutita avrei commesso “peccato” compromettendo la “grazia di dio” il cui pensiero mi infastidiva (provocandomi eccessiva salivazione) perché, in effetti, tra l’altro, giocavo con Camilla. Da e per un certo tempo, tutte le sere per un’oretta circa dopo cena (il tempo che i grandi mangiassero e chiacchierassero e chiacchierassero) ci sedevamo su di un pianerottolo della “Centrale del latte” (che il padre di Camilla dirigeva) dirimpetto a casa mia. Penombra di strade scarsamente illuminate, quiete dell’ora della cena dei più grandi, luci diverse dalle finestre delle case, brusio, e qualche grido di giochi in lontananza, tepore di fine estate: io e Camilla seduti di fronte a gambe divaricate con un sasso in mano che scambiavamo al suono di un ritmo immaginario. Il battito irregolare dei nostri cuori e sul liscio cemento quello dei nostri sassi. Silenzio: il mio sasso era finito tra le sue mutande, il suo tra le mie. In quei brevissimi momenti il silenzio assumeva per me un aspetto vorticoso e frenetico nel gioco delle mani che mollavano il sasso per riprenderlo istantaneamente. Riprendeva il ritmo dei sassi sul cemento. “Federicooooo!”, la voce squillante di mia madre rompe il silenzio. (ma senti come grida). La sua figura che si sporgeva dal grande balcone al primo piano. Ero lì, davanti, sotto il suo naso, forse mi pensava dai Curtolo o dai Togni, miei coetanei e vicini. A letto, intanto, cominciavo a pensare che la differenza tra me e Camilla non era solamente una questione di vestiti e di capelli come sino ad allora avevo creduto. Contemporaneamente felice e scontento. E’ certo che il vero, più profondo, significato di tale differenza, almeno da alcuni punti di vista, mi divenne noto anni dopo…
1932- III° elementare con una nuova, energica insegnante. Veniva dalla città: qualche difficoltà iniziale ma la nuova maestra era una bella signorina. La “signora maestra”. Un po’ di nostalgia, comunque, per la mia precedente e cara insegnante. Abitavamo nello stesso gruppo di villette. Lei in una di angolo nella mia strada. Nuovi amici Marcello e Rolando. Erano (con me?) i più bravi della classe. Comunque più bravi di me. Marcello morì nel 1944. Con Rolando qualche volta, ci vediamo ancora: ciao, ciao. Un particolare: in quel tempo a scuola usavano dei “biglietti di lode” che, periodicamente, venivano consegnati agli scolari più meritevoli. Durante l’anno ad ogni trimestre ne ricevetti uno assieme ad altri. Tali “biglietti” erano di varia specie: più o meno importanti. Il più importante veniva, se ben ricordo, rilasciato a fine anno al migliore della classe. Quell’anno l’assegnazione di tale “biglietto” provocò tra mia madre e me la prima di una serie di rotture, in compenso mi fece scoprire qualcosa di più sulla personalità di mio padre. Durante uno degli ultimi giorni di scuola la maestra mi disse che l’indomani mi presentassi accompagnato: “voglio parlare con tua madre”, “si signora maestra” (cosa succede?, ma!). L’indomani, appresi dal colloquio ufficioso che la maestra aveva deciso di assegnarmi il “biglietto di lode”, facendo capire nel contempo che, anche se fra i migliori, non ero il più meritevole. “Sa, signora, lo faccio per suo padre” disse rivolta verso di me. Tutto bene a mezzogiorno durante il pasto con mio padre sorridente. Raramente sorrideva. Non appena mio padre se ne fu andato al lavoro chiesi a mia madre il perché del suo passivo comportamento per il regalo che la maestra voleva farci. Non avevo ancora finito di parlare che mi investì con una serie di catecumeni la cui massima gloria consisteva nel ringraziamento e nella riconoscenza. “Devi essere degno di tuo padre se vuoi bene a tua madre. Tuo padre occupa un posto importante: è il fiduciario del gruppo rionale (N.Sauro). Fa del bene a tutti, tutti gli vogliono bene, lo stimano. Già!: ma tu non vuoi bene a nessuno: giocare, giocare, giocare, giocare e per di più con le bambine, vergognoso…” “Senti mamma; ma perché la maestra invece di attaccare il “biglietto” alla mia pagella non se lo attacca…”. Mi piombò addosso, mia madre, con una prima valanga di ceffoni; come un’ossessa mi inseguì per la casa in un pazzo andirivieni da un locale all’altro, dal piano inferiore a quello superiore e viceversa, da una sedia a una tavola, su e giù, più ringhiera che scale, più mani che piedi, da un angolo ad un altro, Gianni piangeva: ogni tanto me lo ritrovavo fra i piedi, un vantaggio, in corsa anche lui, cercava di aggrapparsi alle mie gambe o alla sottana della mamma e mi serviva da scudo momentaneo; gridavo, gridava e sberlava…fortunosamente, per un mio dito che era andato a finire in suo occhio, ebbe luogo l’ultima somministrazione di botte; mi ritrovai con la testa sul secchio per lavare i pavimenti in una stanza al piano superiore, perdevo sangue: meglio il secchio che il pavimento, potevo ribuscare; era la mia camera, come un ebete mi buttai sul letto, mi svegliò mio padre, raccontai ogni cosa. Dopo avermi portato in bagno a lavarmi mi riportò a letto assieme a Gianni. Poco dopo sentii salire la voce alterata di mia madre, non udii quella di mio padre. Non ebbi il “biglietto di lode”. Con mio padre andai a ringraziare la maestra e fu un’altra delle cose da nulla che non digerii, le vacanze sono una enormità. Giorgio: un caro amico, e, Renzo, Italo, Luigina, Benito, Giulio, Rosalba, Enzo, Raffaella, Andreina, Carlo, Nello, Ada, Camilla, e altri, più piccoli, più grandi, e altri ancora. Una ciurma, di giorno, ribollente, di ragazzi, irrequieta, campi, campagne, solleone, calcio, “cotto”, pallacanestro, “scianco”, nuoto al canalone, ruba delle pesche, della dulcamara, dell’uva, corse, rincorse, botte e ribotte, fuori e in casa (“la baldi”). Tra un gioco e l’altro una puntata in coppia (io e Giorgio): due giardini, due cancellate: ciao 2, ciao 2. Sta maturando un quartetto, ideale, tutta colpa della simpatia. Un certo tempo: Federico, Rosalba, Giorgio, Andreina. A sera, sul campo ci ritroviamo sempre tutti: meno frenesia, ci sono le bambine, più fantasia: si gioca a “palla prigioniera”. Di solito siamo tutti ben ripuliti. Ho scoperto per caso che il sapone sostituisce la brillantina rendendo la chioma ferma e dura come scagliola essicata. Narciso può saltare, correre, battersi nel gioco, la sua coreografia rimane stabile; è sempre intatto. Onde garantite e costanti, finalmente: sapone per tutti: perché le bambine ci osservano ed anche le mamme sedute a turno in giardini diversi circondati, oltre la strada, il campo da tre lati; sul quarto lato: la strada e qualche bicicletta che circolo. Quando le mamme non ci sono mancano le bambine, allora “ladri e carabinieri” è il gioco trabocchetto. Due volte su tre perdiamo, regolarmente, nozione del tempo in gioco. Genitori impensieriti che si consultano urlano i nostri nomi invano. Ansanti, sudati, isolati o in gruppi, ritorniamo regolarmente alla base in tempo per farci ungere a dovere i movimenti ormai automatici, inerti, felici. Senza “ladri” né “carabinieri”; prediche a non finire. Le vacanze sono un’enormità. In genere, durano anni: troppo poco. Forse sono stato soltanto un po’ fortunato: appartenevo a quella piccola borghesia che, proprietaria di casa con mutui trentennali, poteva mantenere più che dignitosamente che facilmente due o tre figli, comprar loro un paio di scarpe “della festa” all’anno, un vestito a natale e qualcos’altro a Pasqua, mandarli un mese al mare o in montagna in colonia, farli studiare sino al limite di scuola media superiore perché l’università diventava troppo costosa perciò impossibile; che poteva far tutto ciò pagando regolarmente tutti i mesi il salumiere, il macellaio, la luce, l’acqua; che una domenica al mese, in tranvai all’andata o al ritorno, andava in città, tutta composta e distinta, al gran completo, a mangiare le paste o a vedere il carnevale o i colombi. Mia madre era indaffarata per la casa dalla mattina alla sera. Quando morì (1957) mio padre aveva smesso da due anni di portare il paltò di “lana inglese”, rivoltato, con cui si era sposato (1919), lo portavo io.
Alla fine di ogni mese le diatribe fra mia madre e mio padre erano una costante ineliminabile. Mio padre lavorava in molino anche la domenica sino a mezzogiorno. Nel pomeriggio curava un prolifico orto e uno stupendo giardino. “Papà perché lavori sempre, anche di festa?, non lo sai che è peccato?, perché non vai mai in chiesa?” “Vai a giocare, va”; rimettendosi il sigaro in bocca continuava a riposare per l’orto e il giardino. Ormai da qualche tempo avevo cominciato a ricordarmi che avrei fatto quando fossi diventato grande…
1933/1936- ogni sabato, in divisa da “balilla”: di mattina alle “elementari”, nel pomeriggio alla “sede del fascio”. In divisa molto spesso, anche la domenica mattina per manifestazioni presso “l’opera nazionale balilla” in città. In città, la sgradevole nauseante, sensazione che, al primo contatto, mi procurò la alterigia dei comandi, gridati da miei coetanei, e non, capisquadra di “balilla” o “capi” comunque, non mi abbandonò mai. Anche quando, perché non analfabeta, mi si promosse “balilla caposquadra” d’autorità e mi si mandò, quale studente, al “campodux” per divenire “avanguardista cadetto” mai comandai, preferendo l’ufficio o il collegamento o il plotone, a seconda dei casi. Rifiutai in seguito, il grado di “aspirante ufficiale della g.i.l” e, durante la guerra, benchè diplomato, qualsiasi “corso ufficiali”. Fui sempre allergico alla boria, alla “cacca”: preferivo, e preferisco, l’umanità della mischia alla superficialità e al divismo dei montati e degli adulterati. Mi servii della “parità di grado” e, in seguito, “di istruzione” con gli “ufficiali dell’esercito”, per ridimensionare, discutendo al momento opportuno, strafottenze e ridicole assurdità di balordi principi. Ancora oggi, mi disturba la posa, il supeomismo, la finta modestia saccente, di ipocriti barattieri. In genere sono allergico a simili aspetti, propri all’uomo e che perciò mi appartengono come potenzialità, a seconda dei casi e delle relazioni possibili. Perciò, sul piano dei rapporti umani, sono sempre pronto a chiedere scusa od a rompere, dopo essermi spiegato chiaramente. Non sopporto le posizioni abortite, e non, di potenza pale od occultata. Forse per simili aspetti che troppo facilmente si confondono nell’ambiguità, nella contraddizione, nella “logica”, nell’arbitrarietà, sul piano di qualsiasi rapporto tra gli uomini, preferisco l’isolamento attivo. Più propriamente: la solitudine, in cui la tendenza alla scelta di un rapporto costante, interessato o disinteressato, non diventi una condizione determinante ma libera possibilità di scambi durevoli e meditati, nei limiti di una reciproca, pacifica, convivenza critica. Quando la domenica mattina. Non vi erano manifestazioni da divisa in città continuavo ad indossare la divisa di “paggetto di S.Teresa del bambino Gesù”. E’ il momento dell’incenso misto alla confusione: in chiesa sono “aspirante”, al fascio “balilla”, a scuola “scolaro”, a casa “vergognoso”. Il mio impiego domenicale in chiesa per le funzioni decorative, mattina, pomeriggio e sera, compreso il giovedì pomeriggio e le altre sere comandate per prove e catechismo, mi fruttava tuttavia il cinema gratis ogni domenica. Ciò significava che risparmiavo dalla mancia paterna 40 centesimi dei 50 ricevuti. Un affare enorme, un risparmio che si convertiva immediatamente in liquerizia, limoni, paste e caramelle. Non ricordo i films che vedevamo: un misto di “arrivano i nostri”. Tutti “i nostri”, come oggi, con particolare riguardo ai miti di sempre.
Per me non esistevano problemi: comunque, inizialmente contento della rottura dei consueti schemi (casa, asilo, chiesa e dintorni) che “balilla” rappresentava mi accorsi presto che tutto ciò significava anche un ulteriore rottura di scatole. Le “scatole” in questo caso erano rappresentate dalla mancanza di tempo da dedicare al gioco del calcio, passione dominante sia da spettatore che da praticante.
Credo che comincia presto a manifestare la mia indole tendenzialmente insofferente agli schemi, sia in casa che fuori, nei rapporti con persone e cose. Stavo per identificarmi in un certo tipo di soggetti che allora, bonariamente, si definivano “menefreghisti”. Non si pensi neanche lontanamente a remore di qualsiasi natura che non siano del genere “simpatica canaglia”. Infatti il fenomeno si identificava nel fatto che riuscivo con gli amici a trasformare gli ambienti che frequentavamo nella misura necessaria a soddisfare la nostra esuberanza piuttosto che farci trasformare passivamente dagli ambienti nella misura in cui i medesimi ci tolleravano, accettando la nostra presenza non sempre ortodossa e sarcastica non di rado.
Lo sport risolve ogni cosa: in parrocchia organizziamo la squadra di calcio degli “aspiranti” per i tornei parrocchiali “a sette”; alla sede del fascio alterniamo la marzialità del littorio, il menefreghismo, le vanificazioni di cultura fascista, alla pallacanestro e alla ginnastica. Lentamente ma progressivamente si rompono le rigide convenzioni delle “divise ideologiche immutabili” con la variabilità delle “divise sportive”: va meglio, molto meglio. Le scuse, per sottrarci al conformismo pressante del dovere “civico” o “mistico”, diventano sempre più legittime, producenti: congeniali alla nostra natura di ragazzini. Vinciamo due tornei parrocchiali di calcio nonostante il nugolo dei ricorsi, di qualche parrocchia interessata, dimostranti che la nostra squadra era formata da “ragazzi non di chiesa”. Occorre dire che, a quel tempo, il nostro sobborgo, con quelli di S.Stefano e S.Zeno più rinomati, aveva la nomea di essere fra i più turbolenti della città. Ciò si risentiva sui campi di gioco con arbitraggi fasulli che non riescono a farci perdere nessuna partita. Solo in due casi, in due anni, a farci pareggiare. Le discussioni diventavano accanite, il clima rovente, padre Gerardo è il nostro difensore autorevole. Vogliamo bene a padre Gerardo. Eravamo abituati a giocare su di un campo che avevamo livellato e ricavato, dopo arduo lavoro a mano libera, dalla vastissima “piazza d’armi” esistente diagonalmente di fronte alla chiesa. Un campo di dimensioni largamente più vaste di quelli che disponevano le altre parrocchie. In genere i campi sui quali i tornei si svolgevano erano, oltre al nostro, quelli in “buca” dei bastioni in fianco a Porta Nuova e quelli lungo i bastioni a valle delle “Torricelle” adiacenti a Porta Vescovo. Nell’ambito delle discriminazioni che si operavano sportivamente ai nostri danni, ricordo che una partita “S.Stefano-Tombetta” ci fu fatta giocare a S.Stefano, in un piccolissimo cortile dell’oratorio, anziché in “buca” a Porta Nuova come si doveva. Ignorando le provocazioni preliminari vincemmo ugualmente la partita. Riprovocati, a fine partita, ci scatenammo anche se eravamo in pochi e impauriti. Calci, pugni, sputi, rutti, ingiurie, e una sassaiola, in fuga alla meno peggio, che dai pressi di Ponte Pietra si protrasse sin quasi a Castelvecchio, incuranti di tutto e di tutti. Alla ripetizione della partita perché “giocata su campo irregolare” rivincemmo sul campo di Porta Nuova e ci sbarazzammo, con i sanstefanati di “qualcosa” che ci era rimasto sullo stomaco in precedenza. Allegramente. Al fascio intanto: pallacanestro, atletica, ginnastica, il tutto in una formula di tipo economico-casalingo. Nel frattempo arrivato all’Istituto Tecnico Commerciale “A.M.Lorgna” di Corso Cavour, dopo aver consegnato “l’oro alla patria”, sono bocciato, a giugno, con grave scandalo familiare nella classe 1B inferiore, in quattro materie: italiano, latino, storia-geografia, disegno. Gli occhi di mio padre mi avevano sempre incusso soggezione, nonostante la sua bontà e comprensione perché, in effetti, mia madre, nell’intento di tenermi in qualche modo a freno, esagerava il mito della terribilità di mio padre ma quel pomeriggio, in attesa della cena per comunicargli la bocciatura, ero veramente angosciato. Inaspettatamente, mio padre fu freddo e conciliante (la tragedia me l’aveva già fatta mia madre): “pensi di continuare gli studi o preferisci fare il manovale?” “voglio studiare, papà” “allora, da oggi in poi studierai quello che non hai studiato a scuola” “si papà”. Per più di due mesi, ogni mattina trovavo il programma di ciò che dovevo studiare e dei compiti che dovevo presentargli ogni sera al suo ritorno. Così, a turno, per tutte le materie. Le botte che non presi quella sera le ricevetti, con interessi enormi e con intensità variabile dal più al meno, nei mesi successivi durante il riscontro degli errori scritti e orali; “Mamma, come può il papà insegnarmi tante cose?” “Tuo padre ha fatto le scuole, perché meritevole non ha mai pagato le tasse. Tuo nonno, del resto, non avrebbe mai potuto farlo studiare, aveva altri dieci figli. Era la miseria nera. Tuo padre fu un’eccezione: un suo zio prete capì, a quel tempo, che era diverso dagli altri e meritava di studiare”. Man mano che il mio rendimento migliorava, e il clima fra me e lui si distendeva, presi a fare domande. “Studia somaro”, ma una sera, senza parlare, mi mise sotto il naso un foglio logoro ma conservato, il diploma (?) di liceo classico (“Istituto vescovile”). Italiano, latino, greco…nove, otto, dieci,…Sbalorditivo: piansi, mentre egli con abile sotterfugio calmava gli occhi lucidi. “Perché non sei andato all’università, papà?” “Perché la vacca mi mangiò i libri”, mi sorrise gravemente, come se ricordasse qualcosa. Qualcosa di molto, molto triste. “Era la miseria nera”. Io ridevo contento e smargiassone. Al solito. Non digerivo il latino, per risparmiare qualche sberlone, pensai di ricorrere a padre Gerardo. I frati parlano anche in latino. Stavolta, mi dissi, sorprendo mio padre. Ai miei, normali, si aggiunsero gli errori nuovi del correttore ecclesiastico. Ridimensionai padre Gerardo e il latino dei “carmelitani scalzi”.
Quattro anni dopo mi ricordai di questo fatto per giocare uno scherzo memorabile ai miei colleghi di 1A superiore, durante un compito di “inglese”. Per due mesi, non uscii di casa che alla domenica mattina per andare a messa: troppo poco, anche se gli amici mi venivano a trovare tutti i giorni: ci parlavamo dalle sbarre del cancello. Quando mi giudicò sufficientemente preparato, ed esente da errori, mio padre mollò la presa. Ripresi a scatenarmi che ero più quadrato. Estate 1936.
E’ il tempo delle “sanzioni”, bestemmiamo in modo nuovo “porco Eden”. Continua la guerra d’Abissinia, siamo elettrizzati, nelle manifestazioni studentesche cantiamo “faccetta nera”, “giovinezza”, e ammenicoli vari. “Salata” vende i giornali in Piazza Brà vociando raucamente: “L’Arena… cinquantamila mila morti “bissini” messi in fuga”. “Bravo “Salata”, gli gridiamo; “Salata” la sarà la vaca de vostra mare, delinquenti, farabutti, vigliacchi,.. L’Arena…cinquantamila…”. Continuava a ripetere la frase a squarciagola, camminando come se avesse un razzo nel sedere, sembra quasi di corsa, bestemmiando in rabbioso soliloquio. Sibilava come un automa impazzito e a piena carica, galoppava nel suo delirio di strillone arrabbiato e giustamente risentito per la tremenda offesa: “Salata”. Non dava resto e si rifiutava di vendere giornali se non gli garbava, offendendo i rifiutati. Tutti lo conoscevano, tutti volevano il giornale da lui.
Il clima è perfetto: siamo pronti a morire per il duce, la patria, il federale, la Maltoni, e qualcos’altro che non ricordo. L’importante, cioè il tragico, è che siamo pronti a morire. “Viva il duce” è il sogno dell’ultimo respiro: un tonfo. Inizio un nuovo genere di lavoro: per un certo periodo, ogni domenica mattina, dopo l’adunata, mio padre mi consegna un pacco di pane e una busta contenente dei soldi e mi manda in “vicolo Casotti”. “Se ti chiedono chi ti manda, dovrai dire che non lo sai”, “va bene papà”. Mi fanno paura il luogo, lo squallore impressionante, la sporcizia, la miseria, gli sguardi delle persone che mi aprono la porta. Dopo la prima esperienza mi rifiuto di continuare: dovrò andare molte altre volte. Nel ritorno, corro tutte le volte, sono a poca distanza dalla sede del fascio. “Ma papà, sono dei fannulloni che non hanno voglia di lavorare”, “Non c’è lavoro”, è tutto ciò che mi risponde mio padre. L’incoscienza pare essere il risultato più apprezzabile di un popolo nelle mani di un pressapochismo disastroso: io sono incosciente, snaturato. “Papà, perché hai dato le dimissioni da fiduciario del fascio?”, “Perché gli impegni di lavoro non mi permettono di continuare, ho una famiglia, voi dovete studiare”.
In ottobre la proclamazione dell’impero: deliriamo: “viva l’Italia”, “abbasso l’Inghilterra” “porco eden”, “faccetta nera” si aggiorna il catechismo fascista: “chi è il duce?” “il duce è il creatore dell’impero”. Noi studenti aiutiamo le nuove leve a rispondere all’a,b,c, che conosciamo a memoria come il catechismo. La nostra cultura non conosce ostacoli. Sappiamo tutto. A volte, stanco di sentire sempre le stesse cose, suggerisco al neofita vicino qualche risposta alle solite domande. “Dov’è nato il duce?” “A Presepio” “Si, imbecille, fra il bue e l’asinello” è la battuta finale del capo squadra, certo Enzo S., un simpaticissimo tartaglione. Risate generali e: “vieni fuori imbecille”; rosso come un papavero (si trattava in genere di coetanei che venivano dai campi), guardandomi smarrito, esce il “camerata”: “ma dove hai imparato a rispondere così” “me l’ha detto lui”, e indica me. “Senti Chiecchi, figura “vaca”, ti rispetto perché sei figlio di tuo padre”. “Rompete le righe!” e si ritorna a ridere: a giocare. In Spagna intanto i battaglioni di “camicie nere” combattono per aiutare a reinstaurare, oltre al resto la miseria di “vicolo Casotti” a me ben nota, ma allora non potevo capire queste cose. Mi tiravano i fili ed io mi muovevo: ci muovevamo, allegri e cretini. Tutta quella melma di istrionismo, di inconsulta animalità, ci infangava da capo a piedi: era un muro enorme: gli occhi non vedevano; il gioco dei millantatori era norma, l’esaltazione della più vuota retorica: il mezzo, la morte gloriosa: il fine vomitevole, nefasto. Le fantasie tipo “sogni proibiti”, quando vi era fantasia, potevano ancora rappresentare una “cultura” non qualunquistica in relazione allo scadimento e al livello cui erano ridotte e indaffarate le nostre menti infantili. “Calmati scalmanato” mi ripeteva mia madre, rimproverandomi, ogni tanto, di aver portato tutto, proprio tutto, l’oro alla patria. “Proprio tutto”: significava che avevo portato a scuola anche un notevole pezzo, un antico bocchino intarsiato in oro e argento con imboccatura di ambra a forma di pera, che apparteneva per tradizione a suo padre, mio nonno, del quale, spesso favoleggiava, con noi ragazzi che la scherzavamo, parlandoci di quarti di nobiltà paterni andati a male nell’isola di Cipro. Mio nonno era cipriota. Quel bocchino aveva per mia madre un enorme valore affettivo; ricordo che, a scuola, non appena vuotai il cartoccio delle robe sul tavolo della presidenza, il bocchino girò fra diverse mani compiaciute, in divisa e in borghese. Ma!?. Il tempo del “ferro alla patria” venne più tardi e con esso se ne andò la cancellata di casa…
1937/1943- ha inizio un buon periodo di scuola; per due anni, dopo aver ripetuto la prima inferiore, sono sull’”Albo d’onore” (era un foglio incorniciato e decorato che, appeso nell’atrio interno dell’istituto, conteneva le targhette mobili e trimestrali con i nomi degli studenti “più bravi della classe”). Ciononostante sono sempre fra i più turbolenti e irrequieti con grande dispiacere e sorpresa del Signor Preside: “Sbanda”, con il quale ebbi diversi incontri a diversi livelli.
“Lo so che mi chiamano “Sbanda”, dirà due anni più tardi a mio padre “ma li sbando tutti io”. Una graziosa collega di quel tempo, venuta a visitare oggi 6 agosto 1963, gradita sorpresa, questa mostra decisa a farsi spiegare, a “capire”, il significato “artistico” dei lavori esposti, ad un certo punto si ricordò che “anche allora eri un tipo fuori del comune”. Cambiai discorso, mi accorsi infatti di non spiegare niente, oggi, forse nella stessa misura in cui, allora, (non si spiegava) non spiegavo perché, ad esempio, durante “l’ora di religione”, dopo Basevi, lasciavo la classe non prima di aver recitato a voce alta “l’atto di dolore”. “Vieni, vieni Chiecchi, anima perduta, recitami “l’atto di dolore”. Bravo, adesso accomodati fuori figliolo”: mi diceva don O. professore di religione, degna e stimata persona. Spiegazione: disturbavo la lezione ei compagni con domande “illogiche” perché non capivo la “logica” del libro di religione e non raccoglievo il consiglio del professore di fidarmi del “mistero” delle sue spiegazioni senza fare altre domande.
Ritengo di aver insistito a fare, a farmi, domande; costantemente alla ricerca di risposte sia pur transitorie. Tutto il mio lavoro pittorico, forse, può essere considerato una domanda continua a me stesso ed agli altri in una possibile infinità di forme, secondo mia naturale tendenza psicofisica.
Ricordi enormi: un enorme professore nelle materie letterarie: 1938-1939: mettiamo persino in pericolo la serietà dell’Istituto che in pochi anni, sotto la direzione di “Sbanda”, era divenuto uno dei più noti e validi d’Italia. Ricordo la scritta di vernice verde sul portone d’ingresso dell’Istituto “Oggi inizia la galera” e altre che partendo da lì si snodavano per terra e sui muri per Corso Cavour sino ai Portoni Borsari attraverso il Ponte della Vittoria in via Pratosanto sino alla porta della sua abitazione al numero 38 di Via Rovereto, in Borgo Trento. Ricordo che sul muro di fronte a Via Rovereto assieme al simbolo di un teschio era la scritta “Sbanda! I tuoi allievi dedicano con affetto”. Non a torto siamo irrequieti e irresponsabili. La nostra dissociazione trova la sua più congeniale entropia nelle manifestazioni di delirante consenso alla politica del “nostro duce e re imperatore”.
“Viva la guerra”. Come “orientali”, siamo pronti a morire violentemente perché non sappiamo che cosa sia la guerra, la morte. Io comincerò a rendermene conto pochi anni più tardi: altri moriranno senza essersene reso conto. Credendo ancora ai “fumetti” di bellico arditismo. Mio padre, nel frattempo, falcia ogni mia velleità di partecipazione a “marcie della gioventù, “campeggi paramilitari”, ed altro: “Sei troppo giovane, io voglio che tu studi. Studiare è il tuo lavoro”, “I sacrifici di tuo padre e miei per farti studiare non devono andare in fumo”: anche mia madre fa da eco; quando ci si mette, mia madre, è un rimbombo continuo, non c’è scampo, come una lima a chiacchiere ti riduce all’impotenza: giorno per giorno, quotidianamente. Io mi dispero, mi vergogno, in compenso mi ubriaco di calcio, pallacanestro, nuoto,…: gioca che ti passa, sembra essere la politica dei miei genitori in contrasto con quella del governo. Solo adesso che ci ripenso quelle cose assumono per me una chiarezza inedita. I fatti restano. La Germania assalta la Polonia, 1939, “La guerra finirà in pochissimo tempo, bisogna che non ne rimaniamo fuori se vogliamo dividere ciò che meritiamo”, così si sente dire. E noi giovani quasi totalmente, smaniamo di far presto; possediamo una carica di delinquenza incipiente inimmaginabile. La morte è un sorriso, sembra essere il nostro motto. Tanto siamo, ormai, nauseabondi. Quasi nello stesso periodo apprendo di essere stato promosso in 1° superiore, mio padre mi consegna le chiavi di casa: per la prima volta nella mia vita posso cenare fuori con gli amici e rientrare a volontà. Pensate. Alle 6, mi ritrovo orizzontale sui gradini di casa meditando di infilare la chiave; d’improvviso la porta si apre, un paio di pantaloni mi danno l’impressione di essere sotto un ponte, guardo, interrogativamente?, e dico: “ciao papà”, mio padre non mi sente né mi vede, sta andando al lavoro. “Ciao Virgilio”: egli si volta, sereno in volto, proseguendo. Vado a dormire e sono in gondola. Da allora presi l’abitudine, spesse volte, “Virgilio” sostituirà “papà”.
1940, l’Italia entra in guerra, 10 giugno.
Sono bocciato anche in 1° superiore. Le “prime” sembrano essermi fatali, non conosco mezze misure: o bocciato o promosso a giugno. Sto diventando una teppa o lo sono già. E’ l’epoca del biliardo, delle stanze fumose e chiuse, mattina, mezzogiorno, sera. Debiti e crediti: ha inizio una pericolosa altalena. Mio padre viene richiamato nella “territoriale”. Da Domodossola, scrive lettere commoventi. Ricordo la descrizione di un suono di un violino, la sua entrata in una chiesa dopo tanti anni di sciopero: sono meravigliato; ci faceva piangere tutti: mia madre, Gianni, io. Ciononostante, divento sempre peggio. Mia madre non riusciva più a tenermi, con o senza le botte. A scuola “invento” qualche battuta: “la partita doppia è la partita semplice al quadrato”: al solito.
Decidono di farmi ripetere la 1° superiore. A Bardia muore Benito T., 1941: un caro amico. Volevo arruolarmi assieme a lui, ha 17 anni: non c’è senso. Comincio a capire qualcosa che non conoscevo, che non conosco. Non c’è scampo: non vado più a scuola, faccio “berna” quasi in permanenza durante il primo trimestre, con qualche collega. Nonostante i controlli severi delle assenze da parte della presidenza organizzo i ritorni in classe: firme false dei genitori e del preside o del vice preside sul biglietto di giustificazione che veniva presentato il giorno in cui nella prima ora di lezione c’era “ragioneria” e il cui titolare era sufficientemente “cieco” per legalizzare la nostra giustificazione. Tutto bene sinchè, a causa di un amico, scoppia il patatrac.
Ricordo una scena penosa in presidenza, prima del mio abbandono definitivo, tra mia madre, piangente, il preside, da poco bastonato irresponsabilmente da studenti “razzisti” stanchi del suo “razzismo”, ed io: teppa fondamentalmente onesta e sensibile. Mio padre viene in licenza (poco dopo sarà congedato per limiti d’età e perché più utile al lavoro civile), calma mia madre: “Evelina, bisogna capirlo, non è cattivo è soltanto indifferente”.
Ottiene da me la promessa che non solo avrei continuato a studiare “privatamente” ma che avrei fatto quattro anni in due, ricuperando il tempo del teppismo. Così avvenne: nel 1943 mi diplomai “ragioniere” mentre il 25 luglio succedeva l’8 settembre e al Governo Badoglio, la Repubblica di Salò. Ricordo le lacrime di mio padre, che si rifiuta di capire, quando allegramente il 26 luglio gli tolgo “il distintivo” dall’asola, richiudendosi in un ostinato silenzio: pauroso. Io invece capisco, troppo o troppo poco non ha importanza, (Lino Z., oggi stimato medico in B.go Roma, mi ha iniziato all’antifascismo e a Radio Londra) di essere stato turlupinato paurosamente dai capi regi e “repubblicani” in modo nefando e tremendo. Gli amici morti, quelli vivi, le divisioni e i rancori all’interno delle famiglie, le esplosioni di teppismo e di razzismo individuali e collettive, le distorsioni e le repressioni, il nichilismo e il pressapochismo dei gruppi dirigenti,.. …: squallide “nature morte” in cui i limiti di tradimenti morali e sociali si illimitano nei riflessi di un odio e di una nausea sordi e profondissimi pur nell’ambito di un’allegra reazione infantile: volta per volta: irreversibilmente. A momenti, è più che sufficiente, comincio a guardarmi nello specchio della coscienza vincendo spregiudicatamente ogni riluttanza e ipocrisia; da allora penso di aver fatto sempre più spesso tale operazione, anche se i risultati sono stati e sono troppo spesso deludenti, smantellandomi. Consapevolmente.
Settembre 1943, mi iscrivo a Cà Foscari, Venezia, facoltà di economia e commercio. Si parla di “milizia universitaria”. Rifiuto l’università.
Con un biglietto di presentazione di mio padre mi presento al cav.G., vicedirettore della Cassa di Risparmio, che mi accoglie con cordialità e mi congeda fissando all’inizio del mese successivo la data della mia assunzione al lavoro.
Nel frattempo vengo chiamato alle armi, passo un bel periodo alle “Casermette” di Montorio, un sobborgo di Verona. Ad ogni sirena d’allarme, dopo che per istintiva prontezza di riflessi evitai che il suonosegno di uno spezzone mi facesse finire, correvo sulle alture ai piedi del “castello di Montorio” ed acquattato guardavo sbalordito, non senza allegrezza non so se provocata da paura o dà sicurezza, il tremendo spettacolo di bombardamenti a tappeto lungo il nodo ferroviario P.Vescovo-P.Nuova e nel centro della città. Mi pareva di assistere ad una pellicola muta. Non sapevo che dopo qualche tempo mi sarei trovato là, in una buca del parco della Stazione di P.Nuova verso S.Lucia durante uno di tali bombardamenti, senza via di scampo, in preda a sensazioni fisiche inenarrabili: spesso mi sembrò di essere un pallone gonfiato, urli, sibili, tremiti, mani che ti stringevano convulsamente inflessibilmente, maschere di polverone senza tempo in divise a brandelli. Incoscienza: coscienza: ma fondamentalmente senza paura. Mi ritrovo in “fureria”, siamo in molti studenti. Quando si tratta di partire per impieghi verso altre destinazioni operative, sono più le assenze che le presenze. Qualcuno cerca di mettervi rimedio. Sono in condizione di collaborare a parecchie assenze con documentazioni “regolari”. La montagna, i nascondigli, accolgono i più: siamo convinti che la “baracca” duri ancora poco, ancora ci sbagliamo, dovremo soffrire molto, altri moriranno ancora, altri tortureranno; l’esaltazione delle fonti più brutalmente animali dell’uomo era ancora solo al suo inizio. Non sono sconvolto, ma ben deciso e preparato: coscientemente…
1944/1955- Lasciamo Montorio (luogo ritenuto più sicuro) alle divisioni tedesche. Ci trasferiamo, bagagli senza armi, in città, nella caserma del “Novara cavalleria”, a lato dei bastioni, nelle vicinanze della stazione di Porta Nuova.
L’aria universitaria di Montorio è ormai diventata afa pesante, insopportabile e non equivocabile. Si tratta, ad un certo momento, di non farmi trasferire in Germania sotto scorta armata tedesca. Dopo essere stato minacciato di eliminazione da S., sottotenente, nuovo di trinca, veronese, rosso di capelli, nerissimo di ideali, attualmente funzionario statale e che spesso vedo al “Campidoglio” quando, con amici, vado a bere un bicchiere o a mangiare un boccone; con Dino di P. inizio un’avventura che finirà, per me, dopo alterne pericolose vicende, il 25 aprile 1945.
…ci troviamo anfananti al primo piano delle scuderie (dopo aver superato ogni ostacolo preventivato in discesa e in salita) davanti allo spettacolo imprevisto delle finestre sbarrate sulla strada. In luogo della libertà, la prigione: la fine del topo. Un attimo di paralisi, poi l’esplosione dell’istinto, della volontà di conservazione, della strada liberatoria. Mi butto come un ossesso contro la grata. Fortunatamente si tratta di una rete metallica non troppo pesante intelaiata in ferro e murata con quattro ganci ai lati della finestra. Mi metto a tirar calci sulla rete e sul gancio in basso alla mia destra, ma le gambe cedono, con terrore mi accorgo di non aver forza, mi volto: Dino con una serie di colpi di scarpa, dopo una sosta per lasciar passare una pattuglia tedesca, scardina il gancio. Sentiamo che dall’altra parte si grida: “allarme, allarme”; ma ormai stiamo correndo verso il ponte della ferrovia in basso Acquar. Faccio capire a Dino che è più conveniente camminare, ma tentato qualche passo riprendiamo a correre, ansanti. Giunti al ponte ci buttiamo al riparo, gli occhi si sforzano di voler dire qualcosa che non sia la smorfia della bocca tesa nello sforzo di una respirazione quasi impossibile. Guardo Dino cercando di capire, smarrito, cosa mi sta succedendo: è bianco come un morto: mi sento in peggiori condizioni. Dovrà passare qualche tempo prima che possiamo parlare. “Hai una sigaretta?”, faccio per accendere: trema tutto: mani, sigarette, bocche. Dovremo rimetterci molte volte prima di poter fare la boccata liberatrice, si tratta di respirare. Le gambe continuano a tremarmi: tale fenomeno, forse, più psico emotivo che fisico (patologico), sia pure in misura diversa e differenziale ma con “logica” evoluzione, per quanto ricordo, mi colpì sin dal tempo dell’asilo infantile e culminò nella paresi alle gambe che, dal ’57 al ’59, mi debilitò in modo preoccupante durante il duro sforzo per carpire all’arte della mia natura psicofisica qualche perché da dipingere che non fosse accademia ma cultura da offrire alla cultura; che fosse più profonda, anche se combattuta, conoscenza dei miei limiti per poter capire quelli altrui.
E’ inoltre curioso e stupefacente come, oggi, osservando alcuni fenomeni di sudorazioni e di contemporanei cedimenti di energia a livello fisico nelle mie bambine possa, analizzando pazientemente e comparando, ritrovarmi e distinguere aspetti della mia attuale psicosi ancora da abortire rivedendo percentualmente ed empiricamente un tempo non ricuperabile ed aleatorio sotto la coltre troppo approssimativa di ricordi parziali e intermittenti. In questo momento, mentre sto scrivendo, lo stomaco, che ha preso il posto delle gambe nella continuità dei fenomeni psico emotivi, è bloccato e mi procura quasi costantemente difficoltà notevoli di respirazione. Probabilmente basterà curare il fegato e il cuore, invece di fucilare il tempo pensando alle propaggini di una psicosi che non sono riuscito a dominare completamente in tanti anni di autoanalisi e consapevolezza. Che cosa è rimasto in sospeso? Che cosa è successo? Che cosa sta maturando? La lotta è dura, nel novembre del ’44 il governo di Salò fa l’ultimo tentativo per ricuperare gli “sbandati”.
Viene concesso un periodo di tempo entro il quale i “ribelli” potranno presentarsi senza subire alcuna sanzione. Trascorso tale termine “pena di morte” per chiunque sia trovato in posizione non regolare.
Rimango in condizione irregolare: nella Resistenza. Ad un certo momento la situazione precipita: lanci sbagliati vengono ricuperati dai tedeschi, la radio clandestina scoperta, B. fucilato, altri cadono prigionieri, “si salvi chi può”. In tale pericoloso frangente mi salva incredibilmente un documento che un certo M., triestino, aggregato al distaccamento ‘SS’ di Strà di Caldiero, mi aveva procurato e che mi “rinnovava” di mese in mese. Io comunque ho provato a “morire”: in piedi mi sentivo la rigidità di uno spago, in posizione perpendicolare rispetto ad un piano, fortunatamente tenuto fra le dita della mia volontà non ancora esaurita; quando mi dissero di andare e spostarono dalla mia faccia il fascio di luce per fermare altra gente, io non riuscivo a muovermi nonostante la mia volontà che mi supplicava. Istanti inenarrabili. Quando riuscii a muovermi ero tutto un tremito nelle gambe, invece di camminare mi pareva di procedere come un burattino che avanza in una lenta catena di montaggio verso il consumo: una bottiglietta di gazosa. Invece ancora una volta, fortunosamente, andavo con la mia incoscienza verso la libertà, verso altre fatiche, verso una nuova, continua, resistenza: la mia coscienza: la mia ignoranza.
25 aprile 1945: ha iniziato la guerra di un ritorno alla normalità: rivedo fatti, cose, persone, di un tempo memorabile e fecondo: squarci: Val d’Illasi, val d’Alpone, C.L.N., la fucilazione dei delinquenti comuni e ai truffatori “resistenti”, difesa dell’onestà dell’ex sindaco fascista: la sua libertà per la mia “condanna”; partiticità: divisioni, odi, rancori, amicizie…: i componenti del C.L.N. devono appartenere ad un partito, non ho un partito: rimane vacante il posto riservato al Partito d’Azione, va bene: fanno tutto loro, gli amici. Il Prof. Carcereri, docente universitario anziano, al quale mi rivolgo sempre in casi particolarmente complessi; la scoperta che l’antifascista irriducibile e violento nel denunciare i fascisti, certo T., era fascista di Salò quasi da fucilazione… una serie di esperienze impegnative e complesse, anche se limitate alla mia inesperienza e giovinezza, relative alla vita di un piccolo paese di provincia: Caldiero. Il mio disinteresse per l’economicità delle robe, la mia ingenuità, le profonde amarezze, la troppa sensibilità, la volontà di equità, le crisi, le dimissioni, il ritiro definitivo, il solito capo (partigiano) lazzarone che incassa, per mio conto e nome, il prezzo della legalizzazione e della sepoltura della resistenza da parte dello Stato.
Di quel formidabile periodo mi resta un “foglio matricolare” che presentato, mi pare, nell’aprile del ’55, con altri documenti in occasione di un concorso per titoli ed esami ad un posto di lavoro che potevo considerare vinto, mi fece perdere ogni equa possibilità di lavoro. Sembrava “il foglio matricolare”, il certificato penale del peggiore dei delinquenti comuni.
1955, quando me lo consegnarono, al distretto capii che non era cambiato niente (anche se vaghi erano i ricordi giovanili): il fascismo continuava evolvendo nella stasi.
Nell’ottobre 1945 sono a disposizione di mio padre che viene costretto in disoccupazione dopo 40 anni di troppo corretto lavoro senza lenocinii di nessun genere, senza i miserabili sfruttamenti inumani operati dalla categoria di porci alla quale appartiene il suo licenziatore, senza pensione. Darei, al buio, il 10 per cento dei pochi anni che ancora mi rimarranno da vivere per poter riuscire a documentare ciò che provo pensando a questi fatti.
Gli occhi fulminanti di mio padre sono spenti e persi quando mi dice che è costretto a vendere la casa, non ancora completamente pagata, perché non possiede il denaro necessario per farla riparare. Una delle tre bombe cadute nelle immediate vicinanze negli ultimi giorni del conflitto ha prodotto una larga crepa nella casa. Quanti sogni spesi inutilmente? E’ una randellata. Si tratta di poche decine di migliaia di lire. Da allora la vitalità che ha sempre caratterizzato la decisa personalità e l’intelligenza di mio padre subirà un calo impressionante. Assisto ad una crisi che si concluderà attraverso alterne vicende, dodici anni dopo.
Un infarto.
Dal 1946 al 1949 lavoro in un molino a Villafranca: parto da casa alle 6 e rientro alle 20, tutti i giorni.
In un periodo di facilissimi guadagni, di favolose protezioni codificate da leggi che non potevano non essere violate in ogni campo della produzione industriale e dei consumi; di furti immensi in ogni campo, nel settore alimentare si parla ad un certo momento della sanatoria, in poco tempo e a un solo industriale, di molte decine di migliaia di cereali (allora esistevano le “tessere annonarie”) siano essi grano, soja, avena, segale, con i quali si pianificava e si pastificava; parlo dal punto di vista infinitesimale della mia modesta esperienza in un periodo, dunque, in cui si pongono le basi per la tendenza al furto continuato da baruccare economicamente, in seguito, sotto l’etichetta di “miracolo economico”, dal mio luogo di lavoro, il molino, vedo di rendermi utile a mio padre che vendeva a provvigione, per poche migliaia di lire al mese, della farina a mercato nero: il resto della produzione extra controllo andava su altre piazze con maggiori rischi ma con utili più che proporzionali. Sbalordisco nel vedere il moto vorticoso della nuova piccola (media, grossa) borghesia d’assalto (e da bombardamento) che spende e spande e che si sta meritatamente costruendo la piattaforma per furti sempre più grassi e possibilmente “legalizzati” o per capitomboli sempre più improvvisi e imprevisti mano a mano che la “grossa mano” tira le reti e bombarda per il suo verso, e organizza i furti colossali e iperbolici di cui, oggi, in parte infinitesimale, sentiamo parlare e di cui sembriamo scandalizzarci mentre prepariamo le premesse per un sempre più colossale avvenire furfantesco in tutti i campi del nostro operare. Speriamo in bene. Io, invece, con lo specchio di mio padre davanti e lui si considerava fiero, conforme tradizione, di aver lavorato tanti anni per niente, onestamente mi sento di essere, a 40 anni, un a-tipico italiano idiota e impotente che non gode di nessuna percentuale di sconto, che non possiede “biglietti omaggio” di nessun genere, che ha avuto e avrà bisogno di raccomandazioni, che non predica la moralità (vecchia o nuova) “a priori” per l’amoralità “a posteriori”, che non è iscritto a nessuna parrocchia o partito, che pensa e che studia senza avere la tranquillità per pensare, né i mezzi per studiare oltre un breve tempo da oggi e cioè sino a quando non avrà “fucilato” i risparmi degli ultimi sette anni e mezzo di lavoro, in qualità di direttore tecnico-amministrativo di una cooperativa di lavoro, a lire 100.000 (centomila) mensili, tutto compreso; che se non avesse la moglie che lavora difficilmente sarebbe riuscito a vegetare, senza eccessive frustrazioni, con figli e moglie malgrado gli assegni familiari e “il miracolo”.
Ma perché non fate il “miracolo” che un artista che dimostri di possedere titoli non qualunquistici, di qualunque caratura, possa vivere o operare, tramite lo Stato, con un minimo di tranquillità materiale e morale, in solitudine?
Perché non fate il “miracolo” che un artista, che lo voglia, non diventi, se vuol sopravvivere, un oggetto dell’industria culturale? Perché non fate in modo che un artista impegnato non sia costretto, in qualche modo, a prostituirsi? Si ha un’idea di quanta e quale è la prostituzione artistica ad ogni livello di disponibilità in ogni senso?
Ci si rende conto che un artista, se è tale, per un modesto compenso liberatorio mensile, da parte dello Stato, si può dovutamente impegnare a dare quale contropartita uno o più lavori a scelta dei vari direttori dei pubblici Musei nelle varie città italiane? Contribuendo così, da oggi, a colmare una delle più gravi indecenze culturali dei nostri Musei d’arte Moderna?
Inutile dire che occorre impostare la questione in modo che il “fatta la legge fatto l’inganno” diventi pressoché inesistente? E per uomini di una Nazione civile quali pretendiamo di essere. Inutile dire che penso al mio caso?
1950: capisco che non mi è più possibile sopravvivere alla ricompensa di un lavoro, alle necessità della famiglia, al mutare delle condizioni economico-sociali. Mio fratello, è giovane, oltre a tutto ciò che ho fatto io, fa anche le “sue”, mia madre prepara debiti a ritmo continuo e in confezioni sorprendenti. Inizio una nuova attività: agente di Borsa commercio. In breve tempo guadagno sufficiente stima e considerazione da divenire schiavo del lavoro. In compenso miglioro, non senza notevoli sforzi, la mia situazione economica. La vita diventa una nausea a base di telegrammi, telefonate, urli, spintoni, sudorazioni, corse…, corse, corse. Ogni affare degli altri diventa mio: brutto affare per me. Tutte le mattine, escluso il lunedì in cui rimango a Verona, sono in partenza per andare al lavoro: Treviso, Milano, Padova e/o Mantova, Bologna, Genova: ogni giorno un mercato. Alla domenica riposo, dalla mattina alla sera circa, sbrigando la corrispondenza, riordinando i contratti, risolvendo le eventuali controversie in sospeso, preparando il lavoro avvenire.
Visito delle mostre di arte contemporanea, quello che mi capita, durante qualche libertà. Rido come tutti, compatisco, mi offendo, non sapevo di essere così cretino, al contrario: sapevo tutto, proprio come un deficiente. Come certi odierni professionisti.
Forse il ricambio è fenomeno necessariamente reversibile: “Guarda, quel deficiente, ha lasciato il lavoro sicuro per fare l’artista!”.
Non si conclude un affare senza l’insorgere di rogne. Protestano tutti, compratori e venditori, a seconda delle diminuzioni o degli aumenti dei prezzi del mercato. Non riesco a rimanere, come dovrei, sufficientemente estraneo. Resto coinvolto in qualche dissesto: molto lavoro diventa uguale a zero. Non riesco a diventare sufficientemente forte per superare l’abbruttimento materiale e morale del mondo degli affari: sono ingenuo, senza difese. Non riesco a costruirmi la corazza del porcospino e nei casi in cui riesco a diventarlo non uso gli aculei per colpire ma le gambe per scappare. Lo sdegno e l’incapacità aumentano nella stessa misura in cui aumentano gli affari e la mia capacità di consumare e consumarmi. Quanto più cresce il benessere tanto aumenta il desiderio di una vita calma, senza pretese, in cui i bisogni siano ridotti al minimo indispensabile per vivere. Non appena mi si prospetta una possibilità in questo senso è tanta la necessità di cambiare che sbaglio tutto, ogni misura. Nonostante l’esperienza sin qui accumulata, mi fido della parola: per me ha ancora un valore, un significato. Quando si dice l’ingenuità e la volontà di forzare le situazioni! Mi trovo indebitato oltre le mie possibilità. Ho acquistato macchinari per 10 che devo, immediatamente, rivendere per 1, dopo aver speso in 5 ogni mio avere, devo ancora pagare debiti per 4. Sono disperato. Imparo a combattere con il coltello sotto la tavola, ma la mia natura e l’educazione non mi permettono estraniazioni di questo tipo. La crisi è tremenda, la paralisi totale. Non reagisco più. La morte deve sopravvenire all’inedia…
1955, trovo un lavoro, la solidarietà dei familiari, ritrovo la bontà e la cattiveria dei miei simili. Debbo gratitudine a un monsignore, un onorevole, un senatore. Lentamente, risparmiando anche il fiato per respirare, comincio a pagare i debiti, e con essi un nuovo modo di vivere, finirò nel 1960.
Nel frattempo, novembre 1955, contraggo una infezione virale che aggrava una tensione che non si è mai sopita: si chiama pittura. Ha inizio una crisi psicopatologica che si acuirà continuamente in punte impensabili. Tuttora è più che mai in corso: imprevedibilmente. Dopo averne per tanto tempo sentito parlare, comincio a scoprire i segreti dell’invisibile. E’ uno sforzo durissimo che potrà arrivare a sconcertanti conclusioni non conclusive. Ma non, per questo, per me meno definitive.
Volta per volta…
Federico “Chico” Chiecchi